LA STORIA


TRA TARDOANTICO E ALTO MEDIOEVO

Grazie allo studio topografico e della cultura materiale è possibile ricostruire i fattori che in determinati momenti storici influenzano il popolamento montano e rurale. Con la crisi del III secolo d.C. nelle regioni periferiche dell’impero romano si assiste all'abbandono di alcuni centri e alla disgregazione del tessuto viario. Lo sgretolamento politico di Roma fu causa di un minor controllo del territorio e della diffusione di una primordiale forma di brigantaggio. I “briganti” della Maiella dell’età tardoantica erano i pastori, che a causa dell’impoverimento dell’economia locale avevano iniziato a compiere ruberie e saccheggi. Guerre e devastazioni non consentivano di poter contare su una rete stradale sicura ed efficiente, rendendo impossibile la pratica della transumanza. L’allevamento ovino, fondamentale per i pastori della Maiella, in epoca romana era stato incrementato dalla transumanza orizzontale, ossia lo spostamento delle greggi dai monti del centro Italia al Tavoliere delle Puglie durante la stagione invernale. Era necessario, quindi, ristabilire la sicurezza delle vie di comunicazione provvedendo al restauro dell’antica rete viaria, ma i provvedimenti contenuti nell'Editto promulgato del re longobardo Rotari non diedero alcun contributo alla ripresa dell’allevamento transumante. Il territorio dell’attuale Abruzzo, di conseguenza, fu devastato prima dalle guerre greco-gotiche (535-553 d.C.), e successivamente dalla violenta conquista longobarda. Sul territorio abruzzese per un breve periodo si sovrapposero apparati residui dello stato bizantino e nuovi centri longobardi, generando una profonda crisi amministrativa e politica.


LA CONTINUITA' ABITATIVA DI CUSANUM

In alcune zone della Maiella si osserva nell’alto Medioevo una continuità del popolamento, e i resti archeologici evidenziano la frequentazione dei latifondi delle fasce pedemontane. L’antico fundus romano di Cusanum, infatti, nel periodo tardoantico risultava ancora ben popolato. In considerazione di quanto appena affermato appare evidente che le popolazioni germaniche, almeno inizialmente, non crearono nuovi villaggi ma occuparono gli antichi insediamenti già presenti sul territorio. I Longobardi, con la fondazione del ducato di Spoleto e del ducato di Benevento, definirono un preciso assetto politico e amministrativo per l’Italia centro-meridionale. Paolo Diacono, monaco e storico dell’VIII secolo, nella sua Historia Langobardorum, testimonia uno smembramento di quella che in antico era la Regio IV, i cui territori confluiscono da una parte nella regione Valeria, che ingloba le aree di Carsoli, la Marsica e il lago Fucino, e dall'altra parte nella regione Samnium, che comprende Chieti, Alfedena e i territori a sud del fiume Pescara. A livello locale fu attuata una ulteriore ripartizione amministrativa e l’odierno Abruzzo venne suddiviso in sette aree ben distinte chiamate gastaldati: Marsi, Valva, Amiterno, Forcone, Aprutium, Pinne e Teate. Inoltre, dalle informazioni fornite da Paolo Diacono, si deduce che il fiume Pescara fu un elemento di confine, e la Maiella rappresentò un ponte di collegamento tra il ducato di Spoleto e il ducato di Benevento

Anche lo studio della toponomastica sembra confermare il quadro appena delineato, soprattutto nel versante pescarese della Maiella. Si osserva, infatti, come nell’Abruzzo antico, che pure aveva mantenuto un certo isolamento linguistico, con l’invasione dei popoli germanici emergano elementi alloctoni nel sostrato linguistico tradizionale, e che oggi sono ancora in uso. Come vedremo di seguito, tali toponimi rappresentano, per il territorio abbateggiano, un’ulteriore conferma della continuità insediativa anche in questa fase storica. Tra i resti linguistici di origine germanica più diffusi sulla Maiella è ricorrente il nome Fara. Le Farae erano costituite da gruppi di arimanni (uomini liberi in armi) appartenenti alla stessa famiglia, che durante la fase di conquista longobarda presero il possesso dei terreni appartenuti fino a quel momento ai latifondisti romani. Le Farae svolgevano anche un ruolo militare e ad Abbateggio è esistita la località Osteria Fara. Altro termine utilizzato dai Longobardi per indicare la residenza del capo e l’accampamento da lui presieduto era Sala, e contrada Saletto di Abbateggio è un toponimo a base Sala di chiara origine germanica. È evidente, quindi, che le attestazioni di proprietari terrieri sul versante settentrionale della Maiella in età tardoantica dovevano riferirsi ai Longobardi. Alla luce di quanto appena esposto è possibile affermare che la presenza di genti di stirpe germanica stabilitesi nei preesistenti insediamenti di Cusano hanno permesso la continuità abitativa nell’area che di li a poco vedrà la nascita del castrum Abbatejum.


LA FONDAZIONE DI SAN CLEMENTE A CASAURIA

I Longobardi, dopo aver consolidato le proprie strutture militari e statali, presidiarono il territorio con particolare attenzione a quelle aree ritenute strategiche per la difesa delle terre coltivate e delle vie di comunicazione. In alcune zone della Maiella le farae si stabilirono all’interno di strutture difensive arroccate. Ai gastaldati competevano, invece, dei ruoli amministrativi, come la riscossione delle imposte attraverso la tertia, ossia un terzo di quanto prodotto dalle attività agricolo-pastorali svolte dai popolani locali riuniti nei villaggi fortificati. Con il regno longobardo, quindi, si assiste ad un primo abbandono degli insediamenti sparsi a favore di abitati riuniti in borghi difensivi. L’abate di Montecassino Bertario, nel Memoratorium redatto intorno alla metà del IX secolo, tra i possedimenti dell’Abbazia cassinese elenca una serie di castella presenti sulla Maiella già prima della conquista franca dell’801. Quanto tramandato da Bertario conferma che i Longobardi già avevano iniziato a costruire dei castra, che però ora erano diventati proprietà delle abbazie. I vescovi cattolici, infatti, furono perseguitati dalle popolazioni germaniche di religione ariana e costretti ad allontanarsi dalle città, e la perdita di potere delle diocesi favorì l’ascesa di altre istituzioni religiose. Furono i monaci benedettini, infatti, a portare avanti il rinnovamento politico, sociale ed economico attraverso una ritrovata autenticità spirituale rappresentata dalla Regola di San Benedetto.

I centri monastici divennero dei punti di riferimento, e con le chiese rurali, di fatto, si sostituirono alle decadute diocesi, e i monaci divennero molto potenti anche grazie alle donazioni dei fedeli. Soprattutto nell'Italia meridionale, fino ad allora governata dal ducato di Benevento, l’arrivo dei Franchi provocò un periodo di guerriglie e carestie, ma il loro sostegno militare rese possibile la crescita delle abbazie già esistenti e la nascita di nuove fondazioni monastiche. È il caso dell’abbazia di San Clemente a Casauria, che fu edificata per volontà dell’imperatore Ludovico II nell'873. Nell'origine di questo cenobio imperiale risulta difficoltoso distinguere la leggenda dalla realtà storica. Il Chronicon Casauriense, redatto in scrittura cd. "minuscola carolina" da magister Rusticus nel 1182, narra in chiave talvolta prodigiosa i fatti storici di San Clemente a Casauria dalla fondazione fino alla morte dell’Abate Leonate. La dedica a San Clemente sembra avere un’origine favolosa: Ludovico II avrebbe ottenuto infatti le ossa del martire da Papa Adriano, e con una processione solenne le avrebbe condotte da Roma al cenobio che stava costruendo. San Clemente subì il martirio tramite affogamento nel mar Nero e ogni anno l’isola dove gli angeli hanno sepolto il suo corpo riaffiorerebbe dalle acque. In ricordo di questo episodio, e in considerazione del fatto che l’abbazia di Casauria veniva costruita su un'isola, si decise di intitolarla a San Clemente. In realtà i documenti lo indicano come monastero della SS. Trinità e solo dopo circa quarant'anni compare con il nome di abbazia di San Clemente.

Abbazia di San Clemente a Casauria.
Abbazia di San Clemente a Casauria.

Sempre dal Chronicon apprendiamo che per realizzare il monastero venne scelta l’isola sul fiume Pescara denominata Casauria, perché durante il viaggio verso la Campania Ludovico, giunto nei pressi del fiume Pescara, rimase colpito dalla bellezza di Casa-aurea: “Exercitun copiosum aggregavit, Alpes trascendit, et ad Piscariam veniens, insulam delectabilem, cui nomen est Casa-aurea, undique aquis cinctam, invenit”. Nell’antico manoscritto è riferito che Ludovico II edificò il monastero come ex-voto per essere scampato alla congiura ordita ai suoi danni a Benevento dal principe Adelgiso. Ma i veri motivi che spinsero l’imperatore Ludovico II ad erigere l’abbazia di San Clemente erano essenzialmente politici, in quanto l’intenzione era di creare un presidio militare lungo il fiume Pescara, in modo da tutelare gli interessi dei Franchi ai confini dell’impero.


L'INCASTELLAMENTO

In conseguenza di quanto fin qui illustrato è possibile affermare che il rinnovamento proposto dai monaci, l’arretramento delle diocesi e i favori imperiali consentirono alle abbazie di estendere il proprio controllo su vaste porzioni di territorio. L’abbazia di San Clemente, infatti, si trovò ad amministrare molti possedimenti e divenne per i fedeli che vivevano sulle colline della Maiella una guida non soltanto religiosa, ma anche culturale, politica ed economica. Ad un certo punto, però, i centri monastici iniziarono ad essere osteggiati dai signori rurali che tentavano di accrescere le proprietà dei loro casati sottraendo le terre e altri beni ai monasteri. Ciò fu possibile perché i nobili spesso ricevevano dai monaci il diritto di censo, e quindi potevano amministrare vaste aree da coltivare in qualità di affittuari; dopo l’iniziale sottomissione, però, le casate nobiliari avevano riconquistato un vigore economico tale da consentire in modo autonomo la gestione dei territori e la loro difesa. Iniziarono perciò a verificarsi casi di sottrazione illecita di proprietà ai danni delle abbazie, anche attraverso l’uso della violenza, e venne avviato l’incastellamento del territorio.


Le signorie rurali, quindi, attraverso azioni bellicose e con la difesa affidata alle strutture fortificate, riuscirono ad accrescere la propria potenza, e ciò anche per la mancanza di un’autorità statale centrale. In conseguenza di ciò il paesaggio subì un mutamento, generato dalle nuove esigenze che indussero i proprietari terrieri laici a relazionarsi col territorio. Ma la riorganizzazione degli spazi agricoli e abitativi, attuata con l’incastellamento, venne portata avanti anche dai monaci, che ad un certo punto si organizzarono per fronteggiare i soprusi compiuti dai nobili che si ingegnavano in tutti i modi per indebolire le giurisdizioni monastiche. Si verificò quello che Alessandro Clementi ha definito “corsa all'incastellamento, ed è all'interno delle vicende appena illustrate che vanno individuati i motivi che portarono alla nascita del castrum Abbatejum.


LA NASCITA DEL CASTRUM ABBATEJUM

La fonte di riferimento è ancora il Chronicon Casauriense che fornisce, seppur con toni enfatici e indulgendo ad etimologie fantasiose, notizie abbastanza attendibili sui castra fondati dall’abbazia di San Clemente:

 

Particolare del Chronicon Casauriense. Su questa cronaca del XII secolo viene narrata la fondazione del castrum Abbatejum
Particolare del Chronicon Casauriense. Su questa cronaca del XII secolo viene narrata la fondazione del castrum Abbatejum

Si apprende che nel 983, anno in cui era abate Adamo, sui terreni di proprietà dell’abbazia di San Clemente furono realizzati una serie di castra grazie all’aiuto di un nobile laico devoto al cenobio clementino. Tresidio di Bucchianico, infatti, venne in soccorso dell’abate Adamo allorquando l’espansione dei Signori di Tocco verso la Val Pescara metteva a rischio le proprietà dell’abbazia. Tresidio, quindi, dispose, attraverso l’incastellamento degli abitati sparsi, uno sbarramento militare, garantendo la salvaguardia dei possedimenti del monastero di San Clemente. I termini cronologici dell’azione portata avanti da Tresidio abbracciano un arco temporale che va dal 970 al 1020 circa, e la fondazione del castrum Abbatejum risale all’anno 990


L'ORIGINE DEL NOME ABBATEGGIO

Due sono le correnti di pensiero inerenti l'origine del toponimo attuale. Secondo M. De Giovanni, che si avvale di un'analisi prevalentemente linguistica, "Abbateggio" rappresenterebbe un indizio dell'influsso normanno con la presenza della radice di ab(b)ateis, derivata dal latino abbatt(u)ere: la giustificazione sarebbe nella presenza di macerie (quindi "edifici abbattuti") oppure di boschi destinati all'abbattimento di alberi.

Una seconda ipotesi, sostenuta da studiosi locali come V. Morelli e maggiormente in linea con le testimonianze scritte, propone l'interpretazione del toponimo come derivante da abbas, abbatis e quindi indicante un'abbazia; verosimilmente questa potrebbe essere San Clemente a Casauria, da cui, secondo il Chronicon Casauriense, il castrum Abbatejum fu fondato per iniziativa dell'abate Adamo.


RIFLESSI STORICI DEL CASTRUM ABBATEJUM NEL PROGRAMMA ICONOGRAFICO DEL PORTALE DI SAN CLEMENTE A CASAURIA

A fornirci notizie sull’appartenenza del castrum Abbatejum a San Clemente è anche l’impianto iconografico del portale maggiore dell’abbazia, in cui, per volontà dell’abate Leonate, si ripercorrono le vicende storiche del cenobio. Sull’architrave è riproposta la leggenda della fondazione da parte dell’imperatore carolingio Ludovico II, mentre sulla lunetta è raffigurato San Clemente, al centro, che riceve il modellino del monastero dall’abate Leonate. Le altre due figure a destra sono i Santi Cornelio e Febo. Il portale in bronzo riccamente decorato risale al 1191, quando abate è Gioele, che porta a compimento la volontà del suo predecessore. Le formelle scolpite a bassorilievo raffigurano i castelli di proprietà dell’abbazia. Dopo la sua fondazione il monastero clementino si trovò a dover fronteggiare in vari momenti diverse difficoltà, come la distruzione ad opera dei Saraceni nel 916, i tentativi di sottrazione dei beni da parte dei signori rurali e in ultimo la conquista normanna dell’Italia, avvenuta tra XI e XII secolo, che ridusse alla prigionia i monaci clementini. Il programma iconografico sottolinea come la grandezza del monastero e i privilegi di San Clemente a Casauria derivavano non soltanto dal potere religioso, ma anche dal potere secolare, a partire dalla fondazione imperiale da parte di Ludovico, fino alla devozione di nobili come Tresidio da Bucchianico. L’intenzione di Leonate era quella di legittimare le proprietà dell’abbazia nei confronti del nuovo potere civile costituito dai Normanni

Formella con iscritta la formula Abateium presente sul portale dell'abbazia di San Clemente a Casauria.
Formella con iscritta la formula Abateium presente sul portale dell'abbazia di San Clemente a Casauria.

Sull’anta destra del portale maggiore, nella terza formella a partire dall'alto, vengono riportati i nomi di tre castelli: Sanct-Valentini, Paternum, Abateium. Gli studiosi che per primi hanno analizzato le iscrizioni presenti sul portale hanno dato diverse interpretazioni. In particolare Pier Luigi Calore ha affermato che la lettura PalenuAbaielum proposta da Vincenzo Bindi è da respingere. Inoltre viene fatto notare come Vincenzo Bindi commette un errore di trascrizione nel riportare il termine Abajelum che non gli consente riscontri geografici. Nonostante ciò Giovanni Pansa, nel riesaminare il testo, propende per la forma Abajelum tramandata dal Bindi, senza però prendere posizioni riguardo alla possibilità di identificare questo castello. È evidente come la posizione di Pier Luigi Calore sia senza dubbio attendibile, non solo perché non commette alcun errore di trascrizione, ma anche perché individua puntualmente il castrum Abateium identificandolo con l’odierno borgo di Abbateggio.

Particolare della formella con la scritta con la formula Abateium presente sul portale dell'abbazia di San Clemente a Casauria con l'apografo dell'iscrizione.
Particolare della formella con la scritta con la formula Abateium presente sul portale dell'abbazia di San Clemente a Casauria con l'apografo dell'iscrizione.

L'ORDINE CELESTINIANO E MARIANO DI ABBATEGGIO

Papa Celestino V: "Colui che fece per viltade il gran rifiuto". (Dante nella Divina Commedia, Inf., III, 59-60)
Papa Celestino V: "Colui che fece per viltade il gran rifiuto". (Dante nella Divina Commedia, Inf., III, 59-60)

Pietro da Morrone fu eletto al soglio pontificio il 29 agosto del 1294 con un'incoronazione solenne, che avvenne nella città de L'Aquila, e scelse come nome quello di Celestino V. Il suo pontificato durò circa quattro mesi, in quanto il 13 dicembre del 1294 rifiutò l'incarico motivando nella Bolla Papale le sue decisioni: "...Io Papa Celestino V, spinto da legittime ragioni, per umiltà e debolezza del mio corpo e la malignità della plebe (questa plebe), al fine di recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta, abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato e rinuncio espressamente al trono, alla dignità, all'onere e all'onore che esso comporta, dando sin da questo momento al sacro Collegio dei Cardinali la facoltà di scegliere e provvedere, secondo le leggi canoniche, di un Pastore la Chiesa Universale...". La presenza di Celestino V sulla Maiella ha incentivato ad una vita ascetica e di preghiera molti giovani che vivevano nei borghi circostanti. Nonostante l'intenzione di ritirarsi in isolamento, intorno alla sua figura venne a crearsi una cerchia di seguaci, e lo stesso Pietro si adoperò per fondare la congregazione poi conosciuta come Ordine dei celestini. Tra i monaci che si unirono all'Ordine monastico nato sulla Maiella spicca la figura di Mariano di Abbateggio. Il frate abbateggiano, teologo e filosofo, ricoprì importanti ruoli fino a diventare priore, e successivamente, nel 1317, fu nominato governatore della città dell'Aquila.

L'azione e il lavoro dei monaci celestiniani fu costante tanto sulla montagna quanto a valle; se gli eremi furono il simbolo della vita ascetica, le chiese rurali sparse nelle campagne a ridosso dei villaggi fungevano da tramite tra gli abitanti del luogo e l'Ordine monastico di Celestino. Pietro da Morrone, infatti, intraprese il recupero di chiese e piccole cappelle dislocate sul territorio, alcune delle quali erano in condizioni di grave degrado strutturale. Ottenne da Roma e dal vescovato di Chieti varie concessioni e dispense dal pagamento delle decime. Anche la chiesa di San Martino ad Plebem concesse a Celestino dei privilegi: la collocazione di tale chiesa, poi andata distrutta, sarebbe stata individuata nei pressi dell'omonima contrada di Abbateggio. Sull'esistenza di questa pieve non si ha alcun dubbio: nella bolla papale di Alessandro III del 1173 viene citata per il territorio di Abbateggio la presenza della pieve di San Martino, anche se al 1324 sono documentate le decime papali di Abbatigio provenienti solo dalle chiese di San Lorenzo e di Santa Maria. Ciò sembrerebbe dovuto all'appartenenza di questa chiesa direttamente alla diocesi di Chieti già a partire dal XII secolo; San Martino ad Abbatejum, infatti, con la riorganizzazione territoriale attuata dai normanni, venne assegnata al vescovato di Chieti, e le sue decime elargite alla diocesi teatina. L'importanza istituzionale di San Martino ad Plebem sembra essere ancora confermata nel XIII secolo quando abate è Adenolfo, uno dei più stretti collaboratori del vescovo di Chieti. Nel 1278, infatti, sarà Adenolfo a comunicare ai monaci celestini la concessione di privilegi ed esenzioni sulle chiese della congregazione celestiniana situate sotto l'amministrazione parrocchiale di San Martino ad Plebem.


DAI NORMANNI ALL'ETA' MODERNA

Il periodo di massima fioritura di Abbateggio coincide con la dominazione dei normanni conti di Manoppello (XII secolo); a fine 1100 tornò tra i possedimenti di San Clemente. La più antica citazione in un documento risale però al secolo successivo, con una lettera di carlo I D'Angiò datata al 1269, che lo concedeva in feudo a Beltrando Del Balzo. In seguito passò a Corrado di Acquaviva padrone di San Valentino e dal 1335 alla famiglia Trogisio. Nel 1382 fu donato da Carlo III di Durazzo a Giovanni Orsini conte di Manoppello. Nel 1390 tornò al Regio Demanio mentre nel 1479 risulta feudo di Giovanni Luigi Fieschi di Genova. Nel 1487 Ferdinando I D'Aragona concede ad Organtino De Ursinis lo Stato di San Valentino che comprende anche il castello di Abbateggio. Nel 1507 Francesco De Ursinis vende il contado a Giacomo De Phrigiis Poenatibus De Tolfa; nel 1583 è venduto alla Casa Farnese. Fino al 1766 il castello di Abbateggio rimase proprietà dei Farnese, e alla morte di Elisabetta Farnese venne ereditato dal figlio Carlo III di Borbone e in seguito ceduto a suo figlio Ferdoinando IV di Napoli che poi divenne Ferdinando I delle due Sicilie.


IL CATASTO ONCIARIO

Di recente uno studioso del posto ha recuperato un'interessante documento riguardante Abbateggio: si tratta del Catasto Onciario compilato nel 1743. Il testo è stato redatto nell'ambito della riorganizzazione fiscale voluta da Carlo III di Borbone per il Regno di Napoli, quando si decise di riequilibrare il peso fiscale della popolazione. Il Catasto è stato chiamato Onciario perché il metro di valutazione per il reddito patrimoniale e monetale e il successivo imponibile venne basato sull'oncia, una moneta che è stata in circolazione nel Regno di Napoli dal XVIII secolo fino all'unità d'Italia. Il Catasto Onciario prevedeva l'accertamento dei beni reali posseduti e delle attività svolte dai cittadini residenti e dai forestieri possessori di beni o che conducevano attività commerciali all'interno di una comunità ricadente nel Regno. L'Onciario prevedeva una fase compilativa suddivisa per accertamenti: l'atto preliminare prevedeva la nomina dei rappresentanti della comunità che avevano un ruolo di garante e che venivano scelti senza considerazione della classe sociale di appartenenza. Successivamente si procedeva alla rivela e all'apprezzo: la rivela riguardava la comunicazione da parte di ogni cittadino della composizione del proprio nucleo familiare e dei propri beni, mentre con l'apprezzo il catasto effettuava un'operazione di controllo sulla veridicità di quanto dichiarato con le rivele. In ultimo si effettuava l'onciario cioè il calcolo patrimoniale espresso in oncia. Il Catasto Onciario di Abbateggio è un documento storico molto importante, perché consente di fare luce sulle condizioni di vita della popolazione abbateggiana nel contesto del Regno di Napoli.


IL BRIGANTAGGIO

Brigante abruzzese del XIX secolo
Brigante abruzzese del XIX secolo

Il brigantaggio ottocentesco ebbe in Abruzzo una larga diffusione.  Tale fenomeno prese avvio subito dopo il plebiscito che il 21 ottobre del 1860 portò all'annessione delle province napoletane allo Stato unitario. Inizialmente, infatti, ci fu entusiasmo fra la popolazione, ma ben presto le promesse fatte dai piemontesi vennero disattese. Non fu dato seguito ai proclami di abolizione delle tasse sul macinato e di reintegra dei terreni agricoli demaniali; in aggiunta, anzi, vennero imposte nuove tasse, e a quel punto le tensioni sfociarono nella rivolta contro il Re Vittorio Emanuele II e il neonato Stato italiano. Nei paesi che si affacciano sul versante sud-occidentale della Maiella furono precoci gli episodi di violenza armata in chiave reazionaria. Già il 23 ottobre del 1860 vi fu una serie di scorribande nei paesi di Caramanico, Salle e Sant'Eufemia, volte a creare disordini e favorire il ritorno del governo dei Borbone. Nel 1861 fu la volta di Abbateggio, che venne duramente saccheggiato dai fuorilegge con devastazioni e distruzioni. Ma in questi borghi della Maiella i briganti trovavano anche rifugio e nuove leve: in un documento conservato presso l'archivio di stato di Chieti e datato 1861 viene riportata la notizia che i briganti Camillo Angelo Colafella di Sant'Eufemia a Maiella e Nunziato Mecola di Arielli avevano riunito in una banda alcuni cittadini di Abbateggio e San Valentino. I briganti si resero autori di saccheggi, furti e uccisioni che provocarono la dura risposta del Governo italiano, il quale istituì presso ogni comune dei presidi comandati dalla Guardia Nazionale affiancata dall'esercito. La Maiella fu un rifugio per i soldati dispersi dell'esercito borbonico, per fuorilegge, evasi e delinquenti comuni, impegnati a procurarsi bottini e a compiere  violenze. Boschi, grotte e addirittura eremi di celestiniana memoria rappresentarono il covo di bande di briganti. Ai già citati Camillo Colafella e Nunziato Mecola si avvicendarono altri banditi come Pasquale Mancini, Luca Pastore e Nicola Marino. Pastore fu catturato e fucilato nel 1862 mentre di Pasquale Mancini si persero le tracce e non si seppe più nulla. A quel punto prese il comando della banda della Maiella Nicola Marino di Roccamorice, che si era unito ai briganti nel 1861 dopo una rocambolesca evasione dal carcere di San Valentino. 

Tavola dei Briganti:"...Il regno dei fiori, ora è il regno della miseria...".
Tavola dei Briganti:"...Il regno dei fiori, ora è il regno della miseria...".

Fu a capo della banda della Maiella dal 1862 fino al 1867 e si rese autore di omicidi, furti ed estorsioni nei comuni di Abbateggio, Lettomanoppello, Manoppello e Roccamorice. Catturare un brigante non era facile, non solo perché si nascondevano in un territorio ricco di rifugi sperduti e inaccessibili, ma anche perché godevano dell'aiuto di alcuni popolani che, per ragioni di parentela e di amicizia con i membri delle bande, di antipatia verso il nuovo ordine politico costituito dalla Stato unitario italiano, o per paura, si adoperavano per fornire loro assistenza. E' cosi che nasce la figura del "manutengolo", che non ha una precisa collocazione sociale: vi furono arresti per complicità con le bande brigantesche di nobili fedeli ai Borbone, preti, monaci e borghesi. Ma coloro che più di tutti aiutavano i briganti erano le popolazioni rurali dedite alle attività agro-pastorali. Erano loro a fornire viveri, informazioni, armi e a volte anche dei nascondigli nelle stalle e nei casali. Non di rado anche le donne partecipavano a questa complicità, affascinate dalla vita avventuriera e rischiosa dei fuorilegge. Le bande brigantesche hanno lasciato sulla Maiella migliaia di iscrizioni sulle rocce e sulle pietre. Lungo i sentieri, gli anfratti rocciosi e in luoghi impervi sono incisi sulla roccia migliaia di nomi, di date e di pensieri lasciati dai briganti. La testimonianza più famosa è nella cosiddetta Tavola dei Briganti su cui si legge: "leggete la mia memoria per i cari lettori. Nel 1820 nacque Vittorio Emanuele Re d'Italia. Primo il 60 era il regno dei fiori, ora è il regno della miseria". Nel territorio di Abbateggio esiste anche la cosiddetta "grotta dei briganti", un luogo che si riteneva usato come nascondiglio dai fuorilegge.