L'ARCHEOLOGIA


Gli scavi archeologici preistorici in località Valle Giumentina sono condotti dall' ECOLE FRANCAISE in collaborazione con il Comune di Abbateggio. Nell'area antistante lo scavo, dalla collaborazione tra la Soprintendenza Archeologica e il Comune di Abbateggio è nato l' ECOMUSEO DEL PALEOLITICO, ospitato all'interno di alcune ricostruzioni delle tipiche capanne di pietra a secco appositamente realizzate.

Gli archeologi dell'Ecole Francaise sullo scavo
Gli archeologi dell'Ecole Francaise sullo scavo
Ecomuseo del Paleolitico presso la valle Giuemntina
Ecomuseo del Paleolitico presso la valle Giuemntina



I RESTI PALEOLITICI DELLA VALLE GIUMENTINA

 I resti archeologici del periodo Paleolitico testimoniano attraverso l’industria litica come la natura del territorio abbia caratterizzato profondamente la vita degli uomini primitivi. Le comunità paleolitiche avevano una struttura organizzativa molto rigida, già a partire dal numero degli individui che componevano una “banda”. Le donne in età fertile e gli uomini in grado di cacciare costituivano la parte più numerosa, stimata in circa trenta individui, mentre gli anziani e la prole completavano un gruppo che di norma non superava le cinquanta unità. Gli spostamenti erano resi necessari dall’esigenza di inseguire gli animali selvatici durante la caccia. Con condizioni climatiche più miti maturavano i frutti spontanei e ciò permetteva, grazie alla raccolta di bacche e semi, di organizzare dei campi abitativi permanenti. In questo periodo, quindi, l’uomo è seminomade e per far fronte ai propri bisogni alimentari si riunisce in comunità di cacciatori-raccoglitori. Gli utensili costruiti nel Paleolitico, lance e frecce di legno, venivano impiegati essenzialmente nella caccia, ma altre suppellettili realizzate con pelli e materiali deperibili costituivano oggetti di uso quotidiano. L’uomo del Paleolitico lavorava anche la pietra e proprio l’elemento litico rappresenta uno strumento utile per studiare le fasi dello sviluppo delle comunità primitive. La trasformazione della selce, infatti, denota alcune variazioni tecniche che gli studiosi hanno posto in corrispondenza con delle diverse fasi culturali. Alle tecniche più antiche apparteneva la rifinitura della selce su due lati in modo da ottenere una scheggia per tagliare la carne o una punta per un bastone da caccia.


LA CULTURA DEL PALEOLITICO ABRUZZESE DI MONTAGNA E LA FACIES DI VALLE GIUMENTINA

L’analisi cronologica dei reperti dell’industria litica ha evidenziato che con ogni probabilità i primi abitanti della Maiella dovevano appartenere alla specie Homo Erectus. Tale dato sembrerebbe essere confermato dai resti del giacimento di Valle Giumentina, località del comune di Abbateggio. Si tratta di un’area pianeggiante, situata a circa 700 metri di altitudine, che occupa una porzione del versante nordoccidentale della Maiella. Il territorio, per cause naturali, ha subito stravolgimenti che hanno fortemente condizionato la vita dei primi abitanti. Fino a 40.000 anni fa, infatti, in zona era presente un lago, che gli studi geologici hanno messo in relazione con la presenza dei fiumi Orte e Orfento che scorrevano lungo la valle prima di deviare il loro corso. È stato inoltre accertato che il lago subiva periodi di secca con abbassamento del livello delle acque, che consentiva a gruppi di umani presenti in zona di stabilirsi sulle sue sponde. Tale osservazione è stata confermata dalle ricerche archeologiche compiute da Antonio Mario Radmilli. L’archeologo, infatti, ha osservato come la presenza in situ di pietra lavorata costituisca la prova di un abbassamento del letto dei fiumi Orte e Orfento rispetto al lago, che si sarebbe prosciugato successivamente. Lo scavo si estende in verticale per 25 metri; la stratificazione archeologica permette di individuare i periodi di clima caldo e temperato nei quali il livello delle acque risulta essere più basso. Questo sta a significare che anche l’occupazione di alcune aree da parte dell’uomo è stata condizionata da fattori climatici. Poteva capitare, infatti, che l’abbassamento delle acque in alcuni periodi fosse di molti metri: i gruppi umani presenti, quindi, occupavano spazi asciutti che in altri momenti si trovavano sotto il livello dell’acqua. Va sottolineato, però, che l’andamento cronologico degli strati è regolato dalla legge della sovrapposizione, per cui gli strati più in alto sono quelli più recenti, e ciò vale anche per il deposito di Valle Giumentina, dal momento che l’indagine archeologica non ha ravvisato contaminazioni. Dalla stratigrafia emerge un dato di notevole interesse riguardante l’industria litica: la presenza di più tecniche di lavorazione della selce denota l’acquisizione di una manualità che si tramanda per via generazionale, divenendo elemento di distinzione e di varietà culturale. Questi manufatti in pietra hanno evidenziato come anche l’uomo primitivo aveva sviluppato un particolare patrimonio di conoscenze, che l’archeologo Antonio Mario Radmilli ha definito “cultura del paleolitico abruzzese di montagna”. A tal proposito è significativa la produzione relativa alla facies di Valle Giumentina, costituita da raschiatoi di vario tipo e da schegge con incavi clactoniani. È stato accertato, inoltre, che alcune aree venivano considerate delle vere e proprie officine dove la selce veniva estratta e lavorata sul posto. 


OCCUPAZIONI ORGANICHE DELLA VALLE GIUMENTINA

Il precoce rapporto tra uomo e ambiente scaturisce da una primordiale forma culturale. La prima testimonianza di tale affermazione si ha con l’industria litica: la lavorazione della selce è il primo stadio dell'emergere nel corso della storia, a partire da esigenze prettamente funzionali, di tradizioni, usi e costumi. Nel periodo protostorico gli spazi iniziano ad essere occupati in maniera organica e nascono le vie di comunicazione sulle quali viaggeranno uomini, merci e cultura. L’Abruzzo, regione montuosa e all’apparenza ostile, non ha ostacolato la presenza dell’uomo ma ha favorito tra le comunità delle strette relazioni con l’ambiente e il territorio. La penuria di testimonianze rende difficile ricostruire le fasi del popolamento della Maiella da parte dell’uomo in riferimento ai periodi del Neolitico, dell’Eneolitico e della seguente Età del Bronzo. È stato ampiamente accertato, però, che anche in Abruzzo si sono verificati i medesimi drastici mutamenti che hanno segnato ovunque la storia del genere umano. Con la rivoluzione neolitica, infatti, l’uomo si stabilisce in abitati permanenti che favoriscono la nascita di nuove forme di aggregazione sociale in grado di dedicarsi alla coltivazione dei campi e al pascolo del bestiame. Nelle vicinanze di fiumi e laghi sorgono villaggi che determinano una prima “scelta urbanistica e la fine delle bande dei cacciatori nomadi del Paleolitico. La rivoluzione neolitica, dunque, conferisce all’uomo i ruoli di agricoltore e di allevatore

È in questo contesto che possiamo individuare per il comprensorio della Valle Giumentina ulteriori spunti di interesse nell’analisi del rapporto di reciprocità tra uomo e ambiente. Nei periodi presi in esame, infatti, l’uomo inizia a frequentare ripari sottoroccia e grotte, non per ripararsi come avveniva nel Paleolitico, ma per svolgere i primi riti religiosi. È il caso della grotta dei Piccioni e del riparo sottoroccia che oggi ospita l’eremo celestiniano intitolato a San Bartolomeo in Legio. Questi due luoghi, appartenenti rispettivamente ai comuni di Bolognano (PE) e di Roccamorice (PE), sono in stretta continuità territoriale con la Valle Giumentina. I terreni coltivati dovevano essere protetti dalla fauna erbivora e quindi i villaggi si sviluppavano attorno ai campi lavorati. Per questi motivi le grotte e i ripari sottoroccia non si trovavano vicino agli accampamenti, ma nelle zone limitrofe. Va osservato, inoltre, che i singoli villaggi non sono più l’unico centro di riferimento, ma l'occupazione degli spazi assume una dimensione capillare. Le case, leggermente interrate, sono realizzate con legno e arbusti le cui pareti venivano intonacate con fango e argilla. Le comunità umane, sempre più numerose, si organizzano in classi sociali. Emergono personalità che assumono il comando, veri e propri leaders, a cui spetta l’organizzazione dei ruoli e delle attività da svolgere; la diversificazione dei compiti e delle mansioni nelle singole comunità favorisce l'inizio di una stratificazione sociale e della disuguaglianza economica. Ma con l’evolvere dei caratteri socio-economici nascono anche i primi contatti di natura conflittuale tra diverse tribù. È in questo contesto che l’uomo sente maggiore necessità di proteggersi, specie in montagna, e ricorre alle fortificazioni in altura. Sempre nei pressi di Valle Giumentina si ha testimonianza archeologica di una fortificazione di montagna dell’età del bronzo situata sul Colle della Civita nel comune di Roccamorice (PE).

Con la nascita degli abitati stanziali si afferma il concetto di economia polivalente, ossia basata su più attività: agricoltura, allevamento, caccia, pesca, ma anche manifattura. L’insieme dell’attuale patrimonio delle tradizioni artigianali ed enogastronomiche dell’Abruzzo è stato mantenuto vivo dalla memoria dei piccoli centri montani. Gli antichi riti agrari, le rievocazioni storiche e un’economia legata essenzialmente alle risorse del territorio rimandano ad un’origine assai remota, addirittura preistorica. È nell’ottica di quanto appena affermato che possiamo delineare per l’agricoltura e per l’allevamento alcune caratteristiche che si sono tramandate fino ad oggi. Fin dal periodo Neolitico, infatti, la coltivazione dei cereali e l’allevamento transumante si affermano come pratiche predominanti sul territorio abruzzese. In considerazione di ciò è stato possibile affermare che la cultura appenninica non fosse di derivazione alloctona, ma appartenesse alle popolazioni indigene dell’Abruzzo già nel Neolitico. La vita in ambiente di montagna indirizzò i pastori verso la pratica della transumanza, cioè l’occupazione estiva di pascoli più produttivi che si trovavano alle alte quote. Le comunità iniziarono a spartirsi gli spazi per allevare pecore e capre, e i numerosi rinvenimenti di attrezzi per la produzione del formaggio sottolineano per la pastorizia un ruolo economico di rilievo. In ambito agricolo, invece, si distingue la coltivazione dei cereali in quanto adatti ai terreni della fascia pedemontana lavorabili con la vanga. Va precisato, però, che la perdita di fertilità a causa dello sfruttamento intensivo dei suoli imponeva la messa a riposo e l’affinamento di tecniche per aumentare la resa delle piantagioni. Fu introdotto l’aratro trainato dagli animali, e si incendiavano le zone boschive per ricavare altri spazi fertili per la messa a coltura


DAL PERIODO ITALICO ALLA ROMANIZZAZIONE

In età repubblicana il territorio di Abbateggio è sotto la giurisdizione del Pagus Interpromium.
In età repubblicana il territorio di Abbateggio è sotto la giurisdizione del Pagus Interpromium.

Durante l’età del ferro si definiscono ulteriormente i caratteri politici e culturali delle popolazioni che fino a quel momento avevano vissuto nel territorio dell’attuale Abruzzo, e di cui le fonti storiche di età romana trasmettono i nomi e le caratteristiche. I Marrucini erano stanziati tra le gole di Popoli e l’odierna Pescara. Anche le emergenze archeologiche sembrano indicare per i territori di Abbateggio (PE), San Valentino (PE), Manoppello (PE), Bolognano (PE) e in parte Pescara un’appartenenza marrucina. Ancora presente è il popolamento montano, come indica il poeta romano Stazio, che parla della Maiella come montagna abitata dai Marrucini. Il geografo Strabone, invece, riferisce che, nell’occupare la vallata del fiume Aternum, questa stirpe continuava a vivere in villaggi sparsi, il cui centro di riferimento era la città di Teate (Chieti). Teate fu l’unico municipio marrucino, mentre Interpromium, nei pressi dell’attuale abbazia di San Clemente a Casauria era sede di un pagus. Nel territorio del Pagus Interpromium le iscrizioni preromane testimoniano come già nel periodo preromano l’ordinamento politico passò da un regime monarchico ad un assetto di tipo repubblicano, nel quale aumentarono progressivamente le magistrature e gli incarichi pubblici. L’areale occupato da questo antico popolo “abruzzese” non era molto vasto, ma l’organizzazione delle attività fu molto rigida. Il Pagus, infatti, svolgeva un ruolo amministrativo e giuridico in ambito locale. Diversa era la funzione dei vici, cioè piccoli nuclei insediati in ordine sparso nelle zone collinari e di pianura, che rappresentavano una forma di abitato dipendente da una casa rurale. Il vicus era fortemente legato alle lavorazioni agricole e pastorali e costituito essenzialmente da individui vincolati da ramo parentale perché appartenenti alla stessa famiglia. Questa struttura organizzativa, che rivela la concentrazione della popolazione in villaggi, è testimoniata dall’erudito Festo: Vici cipiunt ex, qui ibi villas non habent . Sed ex vicis partim habent republicam et ius dicitur, partim nihil eorum et tamen ibi nundinae aguntur negoti gerendi causa, et magistri vici, item magistri quotanni fiunt. Altero, cum id genus aedificio <rum defi>nitur, quae continentia sunt his oppidi, quae….

Come già accennato, durante i periodi precedenti si erano definite le classi sociali, e l’ulteriore allargamento territoriale dei vari gruppi ben presto sfociò in rapporti conflittuali. Oltre ad essere dei guerrieri, gli italici si dedicavano principalmente alle attività per il sostentamento alimentare. Nella vallata dell’Aternum venivano coltivati la vite, l’ulivo e gli alberi da frutto, mentre nelle zone pedemontane e montane i campi di cereali alternati a pascoli continuavano a caratterizzare la dieta delle genti che popolavano la Maiella. Proprio nell’ambito della coltivazione dei cereali, e delle specie arboree in genere, si assiste alla realizzazione di terrazzamenti che conferiranno un aspetto peculiare al paesaggio. Ma oltre a consolidare i terreni destinati alle colture, con i muri di pietra a secco, si realizzavano anche gli oppida, ossia fortificazioni di montagna in cui ripararsi nei momenti di tensione tra le comunità che condividevano gli stessi spazi. Un notevole sviluppo ha in questo periodo la produzione manifatturiera, tanto che si parla di “artigianato protostorico. Ad essere realizzati erano armi, vasellame di vario tipo e altre suppellettili impiegati anche nei corredi funerari. Tra gli oggetti più curiosi e diffusi tra i pastori dell’Appennino troviamo amuleti e talismani, che testimoniano una tradizione nella quale al simbolismo zoologico veniva attribuito un valore apotropaico.

L’occupazione istituzionalizzata delle terre delineò fattori di diversificazione culturale in quelli che le fonti di età romana indicano come popoli italici. Sia i Marrucini che le altre popolazioni sabelliche erano molto attenti all’esaltazione dei valori militari. A conferma di quanto appena sostenuto è il culto di Ercole, la divinità più venerata dalle civiltà italiche e simbolo della forza e del valore delle armi. A tal proposito si segnalano ritrovamenti di luoghi di culto, santuari e statuette votive dedicati ad Ercole, come i resti rinvenuti in località Colle di Gotte nel comune di Abbateggio. La forza militare di queste popolazioni trovò una straordinaria manifestazione nella guerra sociale contro Roma (90-88 a.C.). Il guerriero italico si costruiva da sé le armi ed era un combattente solitario, ma durante le guerre sociali fu forte lo spirito di unione nella lotta contro Roma per l’ottenimento della cittadinanza romana. La guerra, seppur vinta dai romani sul campo di battaglia, trovò sul piano politico l’accoglimento delle richieste avanzate dalle popolazioni dell’Abruzzo antico che ottennero lo status di cittadini romani. I Marrucini già nel 304 a.C. avevano avuto rapporti di alleanza con Roma, ma fu solo con la guerra sociale e la concessione della cittadinanza romana che si verificò una totale adesione alla cultura e agli aspetti sociali e politici dei dominatori, avvenuta attraverso il processo di romanizzazione.


CULTI DI CERERE ED ERCOLE TRA ETA’ ITALICA E ROMANA NEL TERRITORIO DI ABBATEGGIO

Rudere della chiesa medievale di Sant'Agata
Rudere della chiesa medievale di Sant'Agata

 CERERE

La Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio della Regione Abruzzo ha condotto degli scavi archeologici sui resti di una piccola chiesa situata nel bosco di contrada Sant’Agata. I reperti archeologici hanno messo in luce la presenza di resti risalenti a periodi più antichi rispetto alla datazione medievale. Ciò ha consentito di ipotizzare la presenza di culti femminili della fertilità nel periodo italico e nell’età romana, mentre solo successivamente è avvenuta la trasformazione in edificio cristiano con l’intitolazione a Sant’Agata.

Tra le varie ipotesi sull’attribuzione del luogo di culto la più concreta sembra essere la venerazione in antico della dea Cerere. Si tratta della divinità più adorata dalle sacerdotesse di età preromana e romana soprattutto in Italia. Questa divinità era collegata alla crescita dei cereali e alla loro germinazione, tanto da essere definita la dea dei cereali. I giorni di festa e di venerazione, infatti, venivano chiamati cerealia e celebrati il 19 aprile, cioè quando le spighe sono ormai formate e al loro interno crescono i chicchi. Appare evidente l’auspicio alla prosperità come attestato anche dalla tradizione mitologica: Cerere ha donato la prima spiga agli uomini e ha insegnato loro la coltivazione dei campiAnche gli italici prestavano rigorosa devozione ai culti legati al mondo agricolo, al ciclo vegetale delle piante e alla custodia della prole umana e animale.

Iconografia della Cerere italica
Iconografia della Cerere italica

La Cerere italica veniva posta in relazione anche con la sfera ultraterrena e non era insolito che in determinati luoghi, ritenuti magici, vi fosse la credenza che la divinità potesse personificarsi, incentivando cosi la costruzione di un tempio o luogo di culto. È nel quadro appena descritto che si può inserire la presenza del piccolo edificio, un tempo dedicato a Cerere, che si trova in località Sant’Agata. L’origine assai remota dei riti propiziatori rimanda ad un passato complesso, nel quale le popolazioni italiche organizzavano tutte le attività agricole e pastorali rispettando un rigoroso cerimoniale. Successivamente, con la romanizzazione, alcuni aspetti religiosi vengono mantenuti e inglobati dalla cultura romana attraverso l’istituzione di una religione di stato che aveva funzione regolatrice della vita sociale e politica. Il ciclo delle messi è stato inquadrato dai romani all’interno di riti di fecondità codificati da rituali osservati con estrema devozione nell’intenzione di propiziare i favori divini. Il farro era la base dell’alimentazione dei romani: “Pulte non pane vixisse longo tempore Romanos”, come afferma Plinio nella Naturalis Historia. Gli stessi soldati romani mangiavano prodotti derivati dal farro e la paura che le stagioni potessero andar male e compromettere i raccolti veniva esorcizzata con la religione, e soprattutto con il culto cererio. Sempre dalla Naturalis Historia apprendiamo che i riti dell’aratura e della mietitura furono istituiti al tempo del re Numa Pompilio, mentre la celebrazione della purificazione chiamata fornicalia è testimoniata da Ovidio all’interno dei festeggiamenti della torrefazione del farro che avveniva entro il 17 febbraio. Tra le fonti letterarie è significativo quanto riporta Catone nel De Agri Coltura che mette in relazione il farro con la dea Cerere. Catone, infatti, scrive che durante la mietitura venivano realizzate delle focacce di farina di farro da offrire a Cerere. Alla luce di quanto fin qui riportato è possibile affermare che la presenza di un luogo di culto dedicato alla divinità femminile Cerere è una straordinaria prova storica che mette in relazione la coltivazione del farro con il territorio di Abbateggio a partire da tempi antichissimi. 

Frammento della statua di Ercole ritrovato a Colle di Gotte
Frammento della statua di Ercole ritrovato a Colle di Gotte

ERCOLE

In località Colle di Gotte di Abbateggio nel 2008 sono stati rinvenuti i resti di un tempietto dedicato ad Ercole. Durante i lavori di aratura nei campi di proprietà del signor Giacinto Scipione sono emersi in maniera fortuita una statuina bronzea di Ercole e frammenti lapidei modanati. Successivamente la soprintendenza archeologica dell’Abruzzo ha avviato una campagna di scavo che ha permesso di portare alla luce strutture pertinenti al luogo di culto. In particolare sono stati ritrovati la parte inferiore di un busto di statua in calcare con una testina di minori dimensioni fra le gambe, oltre ad una mano con sei dita, che consente di riconoscere nella figura il dio Ercole. La presenza di questa divinità è attestata in diverse zone delle colline della Maiella in quanto le abitazioni sparse, sia in età italica che nel successivo periodo romano, si sviluppavano attorno a dei santuari rurali. La figura di Ercole veniva rappresentata di solito nelle sembianze di un giovane dal fisico robusto armato di bastone e intento a colpire, e veniva associata dagli italici alla forza fisica e al valore militare. Ma il ruolo attribuito a questa divinità non è soltanto quella dell’eroe virile, perché all’interno di una diffusione capillare sul territorio abruzzese sono diversi i connotati religiosi che gli vengono attribuiti. Spesso era associato alla protezione delle sorgenti, dei commerci, delle greggi e dei viaggiatori. Come testimonia il considerevole numero di statuine votive ritrovate, la venerazione per Ercole era molto sentita e il suo culto continuò ad essere praticato anche presso i romani. Tale successo può essere rintracciato in autori antichi come Diodoro e Macrobio ,che ambientano in Italia le gesta eroiche di Ercole. Anche sulla Maiella  questa divinità è stata associata alla protezione delle sorgenti, delle fonti e delle greggi, e ciò ha permesso di affermare che questo dio veniva invocato con una precisa connotazione agricolo-pastorale, con l’intento di incrementare e proteggere le greggi e la transumanza. La presenza a Colle di Gotte del luogo di culto dedicato ad Ercole testimonia come anche la pratica dell’allevamento esprimesse un richiamo alla fecondità attraverso rituali legati al territorio. Le vie della transumanza, le sorgenti e le fonti venivano sacralizzate con l’intenzione di ottenere protezione e prosperità, e proprio ad Abbateggio ciò trova una straordinaria conferma nella presenza sullo stesso territorio del luogo di culto dedicato a Cerere e dei resti del tempietto di Ercole. Sembra cioè che si verifichi, usando le parole del Prosdocimi, “l’inserimento di Ercole nel ciclo encorio di Cerere”. Non a caso come rilevato da R. Tuteri, Ercole è abbinato a Cerere nelle festività romane del solstizio d’inverno e la tavola di Agnone lo definisce “cerio”.

PERIODO ROMANO

Il paesaggio in età romana subisce ulteriori trasformazioni attraverso l’organizzazione degli assetti territoriali e amministrativi basati sulla nuova situazione politica. Pagi e vici continuano a proliferare in ambito locale ma si assiste ad un potenziamento dei municipi. A partire dall’età imperiale si effettua una revisione della gestione degli spazi agricoli: le terre occupate dagli italici furono parcellizzate dai romani per favorire la nascita dei fundi, ossia aree destinate alla proprietà privata. La funzione dei fundi era rivolta ad una maggiore integrazione delle attività svolte nelle zone collinari e montane che i popoli italici avevano mantenuto di proprietà pubblica. L’importanza dei fundi sarà fondamentale, tanto da influenzare i confini dei futuri comuni. Il territorio comunale di Abbateggio, infatti, denota una forma allungata che dalla zona collinare tende verso le alte cime della Maiella e ciò è dovuto all’istituzione del fundus, allorquando le economie agricole e pastorali furono riorganizzate dalle istituzioni romane. A testimonianza di quanto affermato sono i toponimi: Cusano, nome con cui si indica una contrada di Abbateggio, è una derivazione toponomastica di origine prediale, cioè legata ad una proprietà privata di ambito rurale. Un’ulteriore conferma giunge dai ritrovamenti archeologici: sempre in località Cusanum sono stati rinvenuti un’epigrafe funeraria e un piccolo altare per le offerte votive. Queste testimonianze possono essere messe in relazione con l’occupazione del territorio secondo la tipologia dell’abitato sparso, in continuità con la tradizione dei villaggi dei popoli italici. Nel territorio amministrato dal Pagus Interpromium in epoca romana si erano diffuse in maniera capillare isolate case coloniche e ville. In questo periodo la definizione di un bagaglio istituzionale con regole e norme ben precise rende la presenza dell’uomo sempre più preponderante sulla definizione degli aspetti paesaggistici. Parallelamente il territorio detta i ritmi e le tipologie delle attività svolte, contribuendo a rendere saldo e del tutto reciproco il rapporto uomo-ambiente. Alcune famiglie del luogo si affermano come potenti imprenditori, e attraverso la fortuna economica riusciranno ad ottenere importanti ruoli nell’apparato statale romano. È il caso dei Sexti Pedii Hirruti, come testimonia un’iscrizione del I secolo d.C. murata all’esterno della chiesa di San Donato nel comune di San Valentino in Abruzzo Citeriore

Al confine tra Abbateggio e Scafa, inoltre, è stata ritrovata una stele del I secolo d.C. che riporta notizie a proposito di una famiglia composta da esponenti dei Marcii Venelii e dei Quinti Ataii che possedevano la carica di curatores nell’ambito della lex frumentaria. Questa legge trovava applicazione solo all’interno dell’Urbe e consisteva nell’elargizione del frumento a prezzi molto bassi ai ceti più poveri noti con il nome di plebs frumentaria. Per questi motivi dalle terre periferiche, tra cui anche l’attuale Abruzzo, enormi quantità di frumento venivano convogliati verso Roma. A dedicarsi alla coltivazione dei campi erano i villici che abitavano in case coloniche dipendenti da una villa signorile. Di norma la villa era posta nel centro di riferimento più importante a livello locale. Le case coloniche, invece, erano dislocate sul territorio ed erano costruite in pietra. Ai tre vani principali, la cucina con il focolare e altre due stanze che fungevano da dormitorio, si innestavano altri corpi di fabbrica adibiti a magazzino, rimessaggio degli attrezzi e stalla. Come già accennato, le iscrizioni rinvenute nei dintorni di Abbateggio, tra cui l’iscrizione funeraria proveniente dal fundus Cusanum, suggeriscono la presenza di una necropoli, da mettere in relazione con le case coloniche sparpagliate nelle campagne limitrofe e con le attività agricole che continuano ad avere per tutto l'evo antico un ruolo preponderante, non solo nell'economia ma anche nell'orizzonte sociale e simbolico delle popolazioni. In epoca romana, infatti, il cereale più diffuso continua ad essere il farro, consumato insieme ai legumi, oppure macinato per ottenere delle farine con cui preparare delle focacce. Come visto in precedenza, con il culto della dea Cerere in età preromana e romana, ad Abbateggio è stato possibile intercettare un dato storico da mettere in relazione con la presenza tradizionale della coltivazione del farro. Ciò significa che nell’ambito di una ricerca territoriale possono essere studiati una moltitudine di eventi storici che generano nel tempo la stratificazione culturale. Ciò può essere messo in correlazione con il rigore e l’osservanza della religione di stato da parte dei romani, che aveva contribuito a creare un vasto orizzonte di credenze e sortilegi. I romani erano ossessionati dai segnali fausti o infausti derivanti dagli ambiti della vita quotidiana. Pratiche religiose e riti avevano un’origine antichissima e la superstizione veniva esercitata anche negli ambienti più intimi, e attraverso la condivisione dei membri della famiglia. È il caso del culto di Vesta, la dea del fuoco sacro, in origine fulcro della vita quotidiana all’interno delle mura domestiche, che trova una traslazione pubblica nel focolare affidato alla cura delle vestali che dovevano mantenerlo sempre acceso. A distanza di millenni ritroveremo presso le caratteristiche case appenniniche del piccolo borgo della Maiella, la stessa importanza attribuita al focolare nell’ambito di un simbolismo, che come vedremo, avrà una diversa matrice culturale ma un sottile legame con pratiche antichissime.


ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE

Sul territorio di Abbateggio esistono importanti testimonianze di archeologia industriale e diverse fonti storiche riportano notizie circa l'estrazione del minerale bituminoso dai giacimenti presenti nei dintorni. Lo storico Michele Tenore, nel suo Viaggio in Abruzzo Citeriore nell'estate del 1831, riporta che lungo le vallate dei fiumi Lavino e Lejo era possibile osservare, trasportati dalle acque, grossi massi impregnati di bitume che riaffiorava dalla viscere della montagna. Sempre Michele Tenore sottolineò che gli abitanti del posto raccoglievano queste sostanze oleose per utilizzarle come pece. Ma la conoscenza del sottosuolo della Maiella e delle sue risorse risalgono al periodo romano, come testimonia un panetto di asfalto iscritto ritrovato in zona, che conferma come in età romana anche in Abruzzo fosse praticata la lavorazione degli idrocarburi. Lungo la vallata del fiume Lavino, infatti, lo sfruttamento dei giacimenti di bitume presenti nel sotto suolo iniziano fin da subito ad interessare il territorio di Abbateggio e degli altri siti che un tempo erano sotto la giurisdizione di Interpromium. L'avvio dell’estrazione e della lavorazione del minerale asfaltifero era necessario per impermeabilizzare il fondo delle navi che i romani tenevano ormeggiate nel porto della vicina Aternum (Pescara).

L'industria asfaltifera della Maiella è stata molto importante per l'intero fabbisogno nazionale, tanto che fino agli anni '60 le miniere di Abbateggio, Manoppello, Lettomanoppello, Roccamorice, San Valentino in Abruzzo Citeriore e Scafa fornivano circa il 40% della produzione italiana. La prima attività estrattiva del bitume della Maiella con metodologie industriali avvenne nel 1844 per iniziativa di Silvestro Petrini. L'imprenditore abruzzese, infatti, aveva condotto delle ricerche sul campo sin dal 1840, e nel 1844 impiantò uno stabilimento per la lavorazione del petrolio e degli asfalti partendo con un capitale sociale di 40.000 lire. Dall'iniziativa di Silvetro Petrini prese avvio una stagione di grande sviluppo industriale con la costruzione di fabbriche, ferrovie per il trasporto del materiale, teleferiche, centrali elettriche e vennero coinvolte società italiane, tedesche, inglesi, svizzere, che di volta in volta entrarono in possesso delle licenze minerarie per lo sfruttamento delle risorse. 


IL PROGETTO VALSIMI

Ad Abbateggio è stato realizzato un ecomuseo all'aperto chiamato “Ecomuseo Valle del Lejo”, nel quale sono stati collocati i macchinari impiegati per il trasporto e la lavorazione del bitume, oltre ad altri utensili in uso ai minatori. Sono stati ripristinati i sentieri che dal paese conducono alle miniere del Pilone e del Cusano attraverso tracciati che danno luogo ad un vero e proprio parco geominerario. Con il progetto VALSIMI è stato avviato il recupero della memoria della realtà industriale cessata da circa cinquant'anni. 


L'ANTICO MULINO SUL FIUME LAVINO

Al confine tra i comuni di Abbateggio e Scafa si trova un mulino ad acqua risalente al '600. Da un punto di vista sociale il mulino ha avuto un'importanza fondamentale per gli abitanti della vallata del fiume Lavino, tanto da rimanere in funzione fino agli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale. Ciò può essere messo in relazione con la conservazione della coltivazione del farro nelle campagne circostanti, e in special modo sul territorio di Abbateggio. I mulini ad acqua sono molti diffusi sulla Maiella e su tutti i fiumi dei valloni sono presenti uno o più mulini storici. Il mulino del Lavino sfruttava il movimento dell'acqua del fiume per ottenere l'energia necessaria a movimentare tre coppie di macine di pietra dal peso di oltre 500 Kg. A seconda dei cereali macinati, infatti, si utilizzava una delle tre macine: una era destinata ai grani, la seconda al granone, mentre la terza macina era impiegata nella molinatura delle misture, cioè miscugli di orzo, segale, e altri cereali macinati insieme per ottenere mangime per gli animali. Le tre macine accoppiate erano costituite da due ruote di pietra, una fissa e l'altra fatta ruotare da un palo di legno che fungeva da albero di trasmissione. La coppia era poggiata orizzontalmente su una base di legno. Le superfici delle macine venivano scolpite per ottenere delle scanalature, in modo da consentire l'areazione del grano, e ciò permetteva di aumentare la velocità di rotazione della ruota mobile senza scaldare la farina. La struttura che ospita l'impianto è un casale rustico in pietra locale posizionato sull'ansa del fiume Lavino. All'esterno sono presenti delle chiuse e delle canalizzazioni che convogliano l'acqua verso un invaso, generando la pressione necessaria a far ruotare le pale e quindi le macine. Il mulino oggi è un monumento all'interno del Parco Territoriale Attrezzato Sorgenti Solfuree del Fiume Lavino. Si tratta di un'area di grande importanza naturalistica per la presenza di sorgenti di acqua solfurea che originano torrenti, laghetti e pozze che creano un particolare effetto cromatico, in quanto le sostanze solforose disciolte nell'acqua le conferiscono un particolare colore turchino.